A cento anni dalla fondazione del Partito Comunista Italiano, la Casa Museo Storia del Comunismo e della Resistenza di Matera celebra l’avvenimento con l’esposizione di alcune tessere originali di quell’epoca. Riviviamo gli accadimenti di quei giorni con un interessante articolo di Francesco Calculli, direttore del Museo.
Buona lettura!
Articolo di Francesco Calculli
CENTO ANNI FA IL CONGRESSO DI LIVORNO E LA FONDAZIONE DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO.
SECONDO TALUNE INTERPRETAZIONI DEMOLITRICI E REVISIONISTICHE, LA SCELTA SCISSIONISTA DEL ’21 FU UN TRAGICO ERRORE. MA ERANO GLI “ORDINOVISTI” DI GRAMSCI A STARE DALLA PARTE GIUSTA DELLA STORIA.
Qualcuno aveva preparato le tessere dei due partiti per il 1921, l’anno della scissione. Due originali di queste tessere sono esposte nel nostro Museo.
I comunisti disegnano un operaio mentre con la mazza spezza le catene che legano il mondo. I socialisti raffigurano una donna che ricuce una bandiera rossa proprio sopra il sole, la falce e il martello. Forse incomincia a riparare lo strappo storico di Livorno. E un grande rattoppo che non è ancora finito, cent’anni dopo.
Quanto accadde a Livorno deve essere compreso non come un peccato originale, né come il più grande trionfo della reazione fascista, bensì come un capitolo fondamentale della storia del nostro movimento operaio, dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni di emancipazione e di liberazione; come un esito naturale della tempesta dell’Ottobre Bolscevico, che radicalizza la storia della sinistra italiana e sembra proiettarla verso l’insurrezione rivoluzionaria che è realmente a portata di mano, anzi addirittura già in cammino per le strade di Torino nel settembre 1920, quando gli operai occupano le fabbriche.
La fase attuale precede o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario o una tremenda reazione…. Il partito comunista si è pertanto formato a Livorno su una base concreta e immediata: il distacco dai riformisti e da coloro che si mettevano dalla parte dei riformisti contro l’Internazionale Comunista.
Così scriverà Antonio Gramsci all’indomani della scissione sul giornale “L’Ordine Nuovo”, l’organo ufficiale del nuovo Partito.
Le fasi salienti del XVII Congresso del PSI
IL XVII Congresso del PSI si apre il 15 gennaio 1921 al Teatro Goldoni di Livorno. Il clima teso in cui il Congresso si svolge, i toni accesi della maggioranza degli interventi, impediscono un confronto di posizioni che non si risolva in una contrapposizione netta. Anche se la linea di demarcazione fondamentale e di rottura è diventata quella che si sintetizza nell’accettazione o nel rifiuto della espulsione immediata dei riformisti (uno dei 21 punti che regolano l’ammissione dei partiti nazionali all’Internazionale Comunista), la verità è che il contrasto tra gli schieramenti è ormai irriducibile e quasi non vi è punto, di strategia e di tattica, che consenta un minimo di accordo reale e non formale. Se l’ IC insiste per l’accettazione integrale dei 21 punti, per quel che riguarda la frazione comunista, la ragione è da ricercare nel convincimento che in Italia si ritiene sia più maturo il processo rivoluzionario rispetto ad altri Paesi.
Pertanto gli schieramenti sono ormai netti: 58.783 voti i comunisti puri di Amadeo Bordiga, Gramsci e Terracini , 98.028 gli unitari di Giacinto Menotti Serrati , 14.695 i riformisti di Filippo Turati. L’atteggiamento dei secondi è dunque decisivo. Con chi si schiererà il loro capo Serrati? L’IC punta su una scissione maggioritaria e opera nella fiducia di un allineamento in extremis di Serrati.
Durante i primi giorni del Congresso un compromesso è tentato da Paul Levi del partito comunista unificato tedesco: ma le indicazioni di Mosca, chieste telegraficamente da Rakosi, uno dei delegati dell’IC, sono intransigenti.
Il voto di Mosca a Livorno e la fine dell’autonomia del PSI
In effetti il disegno dell’IC di imporre l’allineamento di Serrati nella convinzione di una crisi rivoluzionaria imminente in Italia più che altrove, si congiunge con la consapevolezza che l’orientamento di Bordiga per una scissione ad ogni costo si è largamente imposto nella frazione comunista. Gli interventi dei delegati stranieri si muovono tutti nello stesso senso. A sua volta il messaggio del Comitato Esecutivo dell’Internazionale pone la rottura coi riformisti come “assolutamente categorica”. Infine Kabakciev, portando il saluto di Lenin e della Internazionale, sottolinea che la scelta del partito in Italia è al centro dell’attenzione sia “del proletariato del mondo intero” che della borghesia. Dipendono infatti da essa gli sviluppi di una situazione che è «rivoluzionaria su scala mondiale» ed esalta come gli ordinovisti con Gramsci, il valore delle occupazioni di fabbrica, come mezzo di lotta che mette in moto processi di rottura che la borghesia capitalista cerca di «schiacciare col sangue e col fuoco».
In tal senso, particolarmente duro è l’attacco del rappresentante dell’Internazionale a Serrati che nega nella occupazione delle fabbriche un atto rivoluzionario per eccellenza, e rifiuta di vedere nella occupazione delle terre un fatto altrettanto rivoluzionario. In sostanza l’IC sembra ritenere che in Italia esistano forze rivoluzionarie che, liberate dagli impacci dei riformisti e dei centristi, siano capaci di suscitare e incanalare movimenti rivoluzionari di massa.
Nello sviluppo di tali movimenti in Italia e in Europa, essa vede la condizione per il successo e lo sviluppo della stessa Rivoluzione Russa. Non si tratta di esportare la rivoluzione, ma di coordinare e guidare politicamente i movimenti dei vari Paesi nella prospettiva della rivoluzione mondiale. Proprio per questo motivo, lo stesso Lenin si dice comunque convinto che la grande maggioranza del proletariato italiano andrà con la Internazionale Comunista e non con coi riformisti, e che gli incerti, i serratiani, giunti all’ultima scelta, si schiereranno per essa.
Le linee di scontro e gli interventi dei principali protagonisti
Sarebbe qui troppo lungo, anche se non privo di interesse, tentare di riassumere il concitato dibattito che per parecchi giorni (dal pomeriggio del 15 alla mattina del 21 gennaio) vede impegnati comunisti puri, comunisti unitari e riformisti. Soffermandomi su alcuni dei momenti salienti, richiamerò quindi solo gli interventi di Umberto Terracini, Bordiga, Serrati e Turati, che a mio parere bene si prestano per dare un’idea delle linee di scontro e della drammaticità della situazione che le ha espresse.
Nell’intervento di Terracini, sembra aprirsi ancora uno spiraglio verso i massimalisti. Ma c’è una pregiudiziale netta: prima la formazione del nuovo partito comunista, e poi la definizione delle questioni coloniale, nazionale e agraria. Terracini non vuole costringere i serratiani a una discussione e a una scelta sulle concezioni e le linee strategiche, tale da determinare una revisione programmatica radicale: ne verrebbe infatti investito gran parte del massimalismo confluito nello schieramento comunista. Egli insiste però sulla necessità e importanza della scissione stessa che diventa un atto rivoluzionario in quanto opera un distacco del proletariato dal freno di influenza borghese. Accettare perciò le 21 condizioni nella forma richiesta significa restare coi comunisti partecipando all’atto rivoluzionario che la situazione richiede.
I riformisti, nel timore che lo spiraglio possa allargarsi e farli trovare in una posizione di isolamento, intervengono subito in modo da riavvicinarsi ai massimalisti e allontanare questi ultimi dalla frazione comunista. L’operazione riesce anche perché nel frattempo tutti i tentativi di mediazione sono avviati al fallimento.
L’intervento di Bordiga giunge in questo momento decisivo. Il suo è un discorso serrato che dalle premesse di Marx ed Engels, del “Capitale” e del “Manifesto dei Comunisti” rivendica come obbiettivo prioritario la necessità della formazione di un partito comunista secondo la linea dell’Internazionale e aggiunge che a tale formazione bisognava procedere al momento dello scoppio della guerra con una rottura e una selezione profonda all’interno del PSI. La rottura non c’è stata allora e bisogna farla adesso.
Rovesciando le tesi di Serrati, Bordiga precisa che non si può sovrapporre “un programma rivoluzionario ad un meccanismo non rivoluzionario“, quale è il partito socialista omogeneo, sostenuto da Serrati e anche da Turati. Per quanto affermi che dovrebbe essere esclusa solo l’ala collaborazionista coi riformisti, Bordiga comprende che la frattura si realizza ormai in profondità con gli unitari in blocco, secondo il disegno di scissione da lui perseguito da tempo; respinge quindi ogni appello al compromesso e conclude il suo intervento con una esaltazione del nuovo partito e della lotta che lo attende verso la Repubblica dei Soviet in Italia.
Ma Serrati si batte contro la rottura di questa unità perché vi scorge il pericolo non infondato di spezzare il movimento economico dei lavoratori italiani controllato dai riformisti e, in definitiva, lo stesso movimento rivoluzionario. Senonché la sua posizione non era intermedia né conciliatrice tra il comunismo e il riformismo, ma secondo il nome da lui stesso prescelto era unitaria nel senso antico della convivenza delle correnti nel partito. In sostanza la politica del rivoluzionario Serrati conduceva alla conservazione del tipo tradizionale di organizzazione. Si comprende perciò che l’appello all’unità resti inascoltato anche quando egli lo collega all’offensiva reazionaria del fascismo che avanza sul piano interno e sul piano internazionale. Del resto provvederà ancora di più Turati a rendere insostenibile la posizione di Serrati quando, intervenendo nel dibattito, non nasconde il suo convincimento contrario a ogni soluzione rivoluzionaria e che lo porta a dubitare del valore della Rivoluzione Russa.
Turati , disposto a rimanere in minoranza come era stato a lungo, ma per nulla disposto a rinunciare per questo a fare ugualmente la sua politica, sottolinea la differenza tra quella che chiama “l’avventata revisione e proclamazione di Bologna” cioè il Congresso del 1919 che ratificò la adesione del PSI all’Internazionale Comunista e cambiò il programma del partito, e “i cauti e ponderati discorsi degli stessi estremisti e massimalisti a questo Congresso”.
Su questa differenza egli punta per mettere in luce la fragilità delle posizioni massimaliste che si cerca di nascondere dietro la retorica rivoluzionaria, e vi oppone la linea riformista che rifiuta la violenza e tende a rendere maturi i proletari perché possano subentrare alla borghesia nelle «gestioni sociali». È un discorso di attacco ai massimalisti che viene a confermare da una direzione opposta le critiche recise che i comunisti puri muovono al centrismo di Serrati.
Il risultato delle votazioni e le loro conseguenze. La nascita del PCD’I
Quando la mattina del 21 gennaio vengono comunicati i risultati delle votazioni, e si conferma che gli unitari di Serrati fanno blocco con i riformisti, i comunisti abbandonano il Congresso al canto dell’Internazionale e si riuniscono subito dopo al Teatro San Marco per dar vita al Partito Comunista d’Italia – Sezione della III Internazionale.
In pratica il Congresso del nuovo partito si conclude in due brevi sedute. Nella prima prendono la parola i delegati dell’IC e dei partiti comunisti stranieri, nonché i rappresentanti di diversi gruppi che aderiscono al nuovo partito e della Federazione Giovanile Socialista che a schiacciante maggioranza si pronuncia per il passaggio nel PCD’I. Nel pomeriggio si decide di fissare a Milano la sede centrale del partito dove si pubblicherà pure il bisettimanale “Il Comunista“, come organo centrale, e si procede alla nomina del Comitato Centrale composto di 15 membri oltre il rappresentante della Federazione Giovanile Comunista che sarà costituita pochi giorni dopo.
Il nuovo Comitato Centrale del partito
A far parte del Comitato Centrale vengono chiamati gli astensionisti Bordiga, Grieco, Parodi, Tarsia, Sessa, Polano per i giovani; Gramsci e Terracini dell’Ordine Nuovo; Belloni, Bombacci, Gennari e Misiano, di provenienza massimalista, cosi come Repossi, Fortichiari e Marabini. Non venne invece istituita la figura del segretario generale, anche se il ruolo di capo del partito era di fatto rivestito da Bordiga.
Il ruolo di Gramsci e Togliatti
Quanto a Gramsci e Togliatti hanno nei due Congressi del PSI e del PCD’I un ruolo assolutamente minimale.
Antonio Gramsci, che non parla al Congresso di Livorno, si impegna invece nel nuovo partito a saldare l’unità tra le varie tendenze. È un terreno aperto alla egemonia bordighiana; ma per Gramsci il problema è in primo luogo, la costruzione del Partito Comunista e l’esigenza che esso si presenti con un proprio programma, con un proprio indirizzo, con una saldatura propria con le grandi masse proletarie. In secondo luogo, egli insiste sul rapporto tra lotta nazionale e internazionale approfondendo proprio alla vigilia del Congresso di Livorno, il processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l’espressione, indicando alcuni nodi che la classe operaia è chiamata a sciogliere.
“Il capitalismo italiano – egli scrive – ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato le campagne alle città industriali e ha soggiogato l’Italia centrale e meridionale al settentrione. La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione , ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale ed un’altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari . IL capitalismo esercita così il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia, nello Stato sui più larghi strati del popolo lavoratore italiano formato da contadini poveri e semiproletari. E’ certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento. La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano; la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano.”
Conclusioni. Bordiga e Gramsci compagni o avversari?
Ma sono posizioni che non troveranno eco al Congresso di Livorno e nemmeno in quello costitutivo del PCD’I. Occorreranno anni e saranno anni durissimi di lotta e di riflessione politica perché esse possano riemergere, sviluppate e arricchite, come tratti caratteristici della linea politica dei comunisti italiani. Il dibattito che già si viene delineando nelle posizioni di Gramsci e Bordiga sul tema dei rapporti tra il partito, la classe operaia e le masse, conoscerà fasi di sviluppo e momenti di scontro politico assai serrato, sino al gennaio del 1926 quando Gramsci diventerà definitivamente segretario nazionale del partito con l’approvazione delle sue tesi politiche durante il III Congresso di Lione.
E sarà questo l’argomento del mio prossimo articolo.
Riferimenti bibliografici
L’articolo è stato redatto con il supporto di materiale custodito nella “Casa Museo Storia del Comunismo e della Resistenza di Matera”:
- P. Spriano – Storia del Partito Comunista Italiano vol. primo Da Bordiga a Gramsci Einaudi 1976;
- La via italiana al socialismo – Da Gramsci a Berlinguer – Tomo primo 1921-1943 – Ed. Del Calendario, 1985;
- G. Amendola – Storia del Partito Comunista italiano 1921 -1943 Editori Riuniti, 1978;
- Paolo Spriano – Sulla Rivoluzione Italiana, Einaudi, 1978;
- Ezio Mauro – La Dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, 2020;
- 2 Dvd Sceneggiati Rai – Vita di Antonio Gramsci di Raffaele Maiello, 1981.