Stella Rossa: recensione di un romanzo sulla Resistenza davvero necessario

Stella Rossa: cover del romanzo di Claudio Bolognini

Francesco Calculli, direttore del Museo del Comunismo e della Resistenza di Matera, intervista Claudio Bolognini, autore del libro “Stella Rossa. Una storia partigiana” e sulla battaglia culturale che si sta combattendo sul significato della lotta partigiana e del 25 aprile in questi tempi di pericolosi rigurgiti di nazionalismo e negazionismo fascista. Una copia autografata e donata dall’autore è disponibile nella biblioteca del Museo.

Testo e intervista a cura di Francesco Calculli

Stella Rossa è un libro che rimane impresso, che colpisce lì dove fa più male: al cuore. Perché i partigiani di Bolognini sono dei ragazzi, strappati dalla loro vita, dai loro familiari, dai loro amori, e catapultati in una guerra fratricida che non fa sconti. Sono ragazzi il cui sogno primario è quello di continuare a vivere. Ma sono pur sempre ragazzi, la cui vita privata non può essere scissa da quella militare, sebbene siano costretti a immolarsi sacrificando la loro gioventù per estirpare dal Paese un male che si è propagato come un cancro: il fascismo. È un libro che m’ interroga perché è un giacimento di amori potenti e di dolori lancinanti dentro le temperie del Novecento, e questo rende il mio compito di scrivere una recensione più difficile.

Nel libro di Bolognini la Resistenza vi appare come una prova terribile e totale che richiede l’incondizionata e ugualmente totale adesione degli uomini e delle donne e che diventa nuda esperienza esistenziale:«La guerriglia partigiana necessita di squadre ristrette per agire in fretta. Pochi uomini fedeli, freddi e decisi. Pochi ma buoni, ripeteva sempre il (comandante) Lupo. Partigiani scaltri e audaci che proteggessero i fianchi della Brigata quando si spostava, una squadra fidata per le azioni più rischiose. Il partigiano Gallo si fece spiegare quali regole bisognava conoscere per farne parte e le imparò a memoria. La prima regola decretava la conoscenza della zona da colpire. Si dovevano setacciare tutte le vie di fuga : strade, stradine e sentieri. La seconda regola stabiliva di sincronizzare i gesti per l’azione. Gli uomini dovevano intendersi in silenzio e agire all’unisono, come orchestrali in un concerto. La terza regola prescriveva di studiare i movimenti del nemico: i turni di guardia, il numero degli effettivi, le abitudini e gli armamenti. La quarta indicava i tempi dell’azione, ogni minuto, ogni frazione di secondo doveva essere calcolata con assoluta precisione. La quinta regola, infine, imponeva di non perdere mai la testa. La calma doveva essere mantenuta, sempre e in ogni circostanza».



Nel romanzo Stella Rossa le vicende private dei protagonisti s’intrecciano in modo non meccanico con la rappresentazione dell’ambiente, della vita , dei costumi , dei combattimenti partigiani. E non direi che quella parte della vita partigiana che cade sotto l’osservazione dello scrittore non sia che un pretesto per sviluppare le vicende private: perché il testo autorizza anche a capovolgere il ragionamento e credere che le vicende personali siano un pretesto per narrarci una movimentata vicenda partigiana.

La realtà è che i due motivi si sostengono e si illuminano a vicenda, in una fusione veramente rara a trovarsi in racconti di questo genereIn Brigata arrivavano operai, braccianti, mezzadri, contadini, renitenti alla leva e semplici antifascisti. Un esercito composito e multietnico: soldati cecoslovacchi, scozzesi, neozelandesi , perfino un indiano. C’era poi un folto gruppo di sovietici inquadrati agli ordini di Karaton e in agosto erano arrivati gli ex detenuti, tra cui Paolo, a completare il quadro. La Brigata era una babele di razze e lingue, ma la colonna sonora era il bolognese montanaro. Quelli del posto erano più numerosi, le voci e le esclamazioni in dialetto riecheggiavano ovunque».

Partigiani della Brigata Stella Rossa nella zona di Monte Sole. Da sinistra a destra, si riconoscono Adriano Lipparini, Pierino Bolognesi, Gino Gamberini, Rino Cristiani, Giuseppe “Pippo” Venturi e Sergio Beccucci.
Partigiani della Brigata Stella Rossa nella zona di Monte Sole. Da sinistra a destra, si riconoscono Adriano Lipparini, Pierino Bolognesi, Gino Gamberini, Rino Cristiani, Giuseppe “Pippo” Venturi e Sergio Beccucci.

 

Anche il tema lingua-dialetto, è presente qui nella sua fase ingenua: dialetto aggrumato in macchie di colore, scrittura ineguale che ora quasi s’impreziosisce ora corre giù come vien viene badando solo alla resa immediata; un repertorio documentaristico (modi di dire popolari, canzoni) che arriva quasi al folklore. Aggiungete la scrittura asciutta, rapida, oggettiva di Claudio Bolognini, per rendervi conto di come il lettore venga preso e sconvolto dalla narrazione.

Questo romanzo come posso definirlo, ora, dopo averlo letto? Posso definirlo un esempio di «letteratura impegnata» nel senso più ricco e pieno della parola. Oggi, in genere, quando si parla di «letteratura impegnata» ci se ne fa un’idea sbagliata, come d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava l’«engagement», l’impegno, può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere un tributo ai partigiani della Brigata Stella Rossa di cui fece parte anche il nonno dell’autore, Nello Comastri ; e intende rendere onore alle vittime dell’eccidio nazifascista di Monte Sole. 770 morti, tra cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne.

Tra i pochi sopravvissuti al massacro c’era la zia Loredana di Bolognini, lei era presente e aveva solo undici anni. Eppure , nello stesso tempo, già nella scelta del tema c’è un’ostentazione di sfida quasi provocatoria. Contro chi? Direi che questo libro vuole lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza: a poco più d’un anno dalla vittoria alle elezioni politiche della coalizione di estrema destra guidata da Giorgia Meloni, già la «rispettabilità ben pensante» dei neofascisti in doppiopetto era in piena riscossa, e approfittava del clima di impunità garantito dal nuovo regime per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti sovversivi comunisti, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…». Ebbene anche in chi come Paolo e Elena, (due nomi che si distinguono per essere tra i principali protagonisti del romanzo), è entrato nella Brigata e si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori dei fascisti, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi dei partiti di destra radicale che formano parte del governo nazionale non potrete mai sognarvi di essere! Il senso di questa polemica, di questa sfida è forte e rigoroso , concentrato nell’oggettività della narrazione, e devo dire, che se il libro va letto semplicemente come romanzo, e non come elemento di discussione su di un giudizio storico, però vi si sente frizzare quel tanto d’aria provocatoria, che proviene proprio dalla polemica di oggi sul processo alla Resistenza e l’eredità della guerra partigiana nella Repubblica.

Stella Rossa: recensione di un romanzo sulla Resistenza davvero necessario 1

Sono terribili le pagine che raccontano la strage di Marzabotto: «La Furia nazista si placò solo giovedì 5 ottobre ( 1944). Al termine di quei giorni non c’era più vita in tutta la zona attorno a Montesole. Le SS trucidarono centinaia di donne, vecchi e bambini. I superstiti, feriti e affamati, vagarono per giorni , tra rifugi di fortuna e nascondigli nei boschi . Strade, ponti, passerelle, case, scuole, chiese, campisanti e poderi erano distrutti in tutte le frazioni dei comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana». Ed è significativo come in quelle pagine è il brutale stupro di Elena punizione esemplare data dai tedeschi più per umiliare l’odiato nemico partigiano che per cattiveria, che annichilisce tutti, peggio di un morto ammazzato:« (Elena) aveva lo sguardo fisso nel vuoto e non avvertiva dolore, soltanto il disgusto di quei corpi sudati e avvinghiati su di lei. Non sentiva più la schiena, un formicolio diffuso le scendeva fino alle gambe e ai piedi. Non avvertiva le voci e i rumori. I primi due si erano già sfogati a turno e continuavano a ridere, il terzo era steso sopra di lei.. Elena restò a terra nel casotto, immobile, il vestito strappato e gli occhi sbarrati nel vuoto. Non poteva muovere le gambe, non riusciva nemmeno a pensare di muoverle. Non pensava a nulla. Attorno a lei solo silenzio».

È il corpo femminile che in tutte le guerre di ieri e di oggi continua a essere usato come bottino, campo di battaglia, bersaglio strategico da colpire. Perché la morte in guerra è orrida consuetudine, ma una donna privata della dignità è la vita negata, il niente che azzera e svuota anime e ragioni, rivalse, odi, speranze. È anche questa, a conti fatti, la potenza del romanzo di Bolognini che sembra attirare verso di sé la memoria incandescente di altre donne che hanno scontato sulla loro pelle tutta l’infamia della protervia umana.

Proprio lì, in quello spazio mentale, nello scarto senza tempo fra vita e scrittura, le altre sopravvissute degli stupri di guerra si presentano come fantasmi a sorreggere Elena e, unendo la loro drammatica vicenda alla sua, ce la fanno sentire meno sola, quasi fosse parte della tragedia planetaria, pur conservando in un suo scrigno misterioso la dote preziosa di una letizia unica. Poi la guerra finisce, ma le cose non vanno come Paolo e Elena le avevano immaginate. Elena visse per il resto della vita muta e paralizzata su una sedia a rotelle , sconvolta dal trauma della terribile violenza sessuale; Paolo, in realtà la speranza di potersi salvare , evitando lo strapiombo nel gorgo dei sommersi, non dovette abbandonarla mai, neppure quando lui si trovò faccia a faccia con il “Cobra”, l’ignobile delatore fascista che aveva condotto i nazisti al casolare dove Elena viveva con i suoi genitori, che si era una rifatto una vita e circolava indisturbato in giacca e cravatta per il centro di Bologna. Paolo non era riuscito a sparargli con la Luger che gli aveva dato il leggendario “comandante Lupo”, e ottenere così la vendetta che per tanti anni aveva cercato. Non si era però pentito, perché dentro di sé, per quanto ciò fosse difficile, sapeva che stava facendo la cosa giusta.

Stella Rossa: recensione di un romanzo sulla Resistenza davvero necessario 2

Paolo depose la Luger dentro la bara del Lupo e decise che avrebbe continuato a vivere e che non avrebbe dato al mondo la soddisfazione di anticipare il momento del suo oblio. Avrebbe continuato a vivere e il mondo, e tutti coloro in esso contenuti, avrebbero dovuto ancora fare i conti con lui per tutto il tempo che gli restava.

Come fare i conti con un destino ostile? Questa domanda è destinata a restare priva di risposta, ma le immagini che possiamo ricavarne , sebbene extra testuali, gettano una sinistra luce retroattiva sul romanzo: lo rendono simile a una carta che brucia. Lo trasformano in testamento. Né evidenziano il carattere profetico sul tema della “Resistenza tradita”; perché come disse una volta un ex aguzzino fascista mai pentito: «Con Mussolini ho fatto una bella carriera, ma con la Repubblica democratica mi è andata ancora meglio di quanto immaginassi».

L’approdo di “Stella Rossa” a un grande romanzo storico si compie proprio quando la questione privata assorbe quella collettiva e, invece che sminuirla, la consegna alla sua dimensione universale. Questo fa Bolognini, ci fa interrogare su quelle morti come fossero di morti che continuano a morire, ci restituisce di quelle vite un valore eterno, e osiamo sperare , contro il parere di molti, che tutto possa acquistare , un senso no, ma almeno un valore. Sarebbe stato troppo chiedere ai protagonisti diretti di assumere il peso spirituale di quanto accaduto. Elena, con la tenerezza che la rende indimenticabile, ci dice che questo compito etico riguarda noi: i reduci della pace. Non è impresa semplice , ma chi riuscisse a compierla, chi trovasse la forza per rivivere, dentro di sé , le colpe e le piaghe dei padri, cercando di sanarle oggi, per interposta persona, avrebbe modo di rivedere lei, come se non fosse mai morta.

Anche se rifiutassimo il mito della Resistenza, dovremmo comunque sapere che la sua testimonianza, essendo entrata a far parte dell’immaginario contemporaneo, può orientare certe emozioni collettive e plasmare il pensiero di innumerevoli persone. Questi partigiani della Brigata Stella Rossa sono la dimostrazione pratica di come si può riuscire, anche in un regime dittatoriale, a non tradire le proprie convinzioni, e se necessario, andare incontro alla morte per l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutti possano vivere uniti in armonia e con pari opportunità. C’è sempre un margine utile, ancorché sottile, per operare la scelta che distingue il giusto dall’ignavo.

Claudio Bolognini, Stella Rossa. Una storia partigiana, Red Star Press, 2023, pagine 218, 16 euro.




Intervista a Claudio Bolognini, autore del libro “Stella Rossa. Una storia partigiana

Cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo sulla storia dei partigiani della Brigata Stella Rossa? Le esperienze vissute da tuo nonno Nello partigiano della stessa Brigata, e da tua zia Loredana, una delle poche superstiti dell’eccidio nazifascista di Monte Sole, hanno forse lasciato un’impronta talmente forte dentro di te da influire in modo significativo sulla tua scelta?  

L’idea è maturata lentamente e parte da lontano. Da bambino chiedevo a mia zia Loredana dei partigiani del Lupo e di Marzabotto, lei rispondeva sempre con pudore. E poi c’era nonno Nello con il fazzoletto rosso della brigata al collo. Sì, questi ricordi hanno certamente influito nella scelta. Per scrivere il romanzo mi sono recato spesso nella zona di Monte Sole, ma la prima volta  mi sorprese un forte temporale. Giunsi in auto per poi raggiungere Cadotto a piedi. In quel casolare iniziò la strage e, tra gli altri,  morì il comandante Lupo. In pochi minuti iniziò a cadere una pioggia impetuosa, allora continuai verso Marzabotto. Appena intravidi il paese, il cielo si rasserenò e spuntò il sole. Raggiunsi Cadotto il giorno successivo e si affondava nel fango come quel terribile 29 settembre del 1944.   Durante un sopralluogo, quando ancora non sapevo se fossi riuscito a scrivere il romanzo, vidi due ragazzi in bicicletta. Avevano una bandierina della Germania che sventolava sullo zaino. Forse quei due ragazzi “in pellegrinaggio” sui luoghi della strage, in qualche modo mi stavano suggerendo che ne sarebbe valsa la pena. Ecco, il libro nasce da suggestioni come queste, ma potrei citarne tante altre.

L’interazione con il pubblico maturata nell’esperienza del Museo, ci ha reso più consapevoli che è difficile parlare della Resistenza ai giovani d’oggi. È qualcosa di vecchio, di antico per i nati nel nuovo millennio. Pensiamo che la soluzione più intelligente è lasciar parlare – almeno il 25 aprile – quelle donne e quegli uomini che, prima di trovare la morte, lasciarono un ultimo pensiero. “Quando sarai grande capirai meglio, ti chiedo una cosa sola: studia”, scriveva Paola Garelli, partigiana, in una lettera alla figlia, poco prima di essere fucilata da un plotone fascista. Aveva 28 anni .Vale anche per il tuo romanzo “Stella Rossa” che scaraventa il passato nella nostra quotidianità con la forza e la nitidezza che solo la parola scritta può avere. Leggere le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, oltre a romanzi nuovi e classici che raccontano con parole e immagini la storia della guerra partigiana, e spendere così qualche minuto nel giorno della Liberazione, noi al Museo lo facciamo ogni 25 aprile. Non pensi anche tu che è una buona idea?

Certamente occorre proporre esempi in cui le giovani generazioni si possano identificare. A mio parere, sono molto utili le testimonianze dei partigiani e le visite nei luoghi della Resistenza. A tale proposito, segnalo un bellissimo documentario: “Dalle belle città date al nemico” di Bernardo Iovene e Sante Notarnicola. Per la stesura del romanzo è stato utilissimo. Oltre alle visite nei posti dove sono avvenuti gli eccidi mi sono serviti i sopralluoghi dove è nata e ha agito la brigata Stella Rossa. Identificare un prato dove avvenivano gli aviolanci di armi, un casolare dove erano asserragliati i partigiani, o semplicemente ripercorrere un sentiero in un bosco di castagni, forse servono più di mille discorsi. 

Il nostro è l’unico Museo della Resistenza non solo della Basilicata, ma di tutto il Sud Italia, eppure i visitatori italiani provengono in grandissima maggioranza da regioni del Centro Nord; purtroppo sembra quasi che la memoria antifascista sia più fragile nel Meridione rispetto al Nord del Paese. In particolare ti chiedo, dato che sei uno scrittore bolognese, che percezione ha un cittadino del Settentrione della cosiddetta Resistenza al Sud : se la mette sullo stesso piano della lotta delle Brigate Partigiane dell’Appennino tosco- emiliano, oppure vengono considerate semplici «fureurs paysannes», ribellioni di popolo prive d’una chiara motivazione politica, scoppiate in alcune città, come Napoli e Matera contro l’oppressione delle truppe di occupazione tedesche . Ma tu eri a conoscenza dell’insurrezione di Matera del 21 settembre 1943 di cui l’anno scorso si è celebrato l’ 80° anniversario?

Non conoscevo l’insurrezione di Matera del 21 settembre. Tutto è utile per conoscere la nostra storia. Riporto un esempio. Conoscevo la vicenda dei morti di Reggio Emilia del 7 luglio 1960, attraverso la canzone di Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia”, ma sapevo pochissimo del contesto e dei dettagli. Un giorno casualmente attraversai la piazza di Reggio Emilia dove furono uccisi i cinque martiri. Dopo quella visita (in quel luogo ci sono le cinque pietre d’inciampo nei punti esatti dove furono colpiti dalla polizia) ho studiato la tragica vicenda e insieme a un amico disegnatore abbiamo scritto un racconto a fumetti (“Sangue del nostro sangue”). Forse sulla Resistenza al Sud non è stato raccontato  abbastanza. D’altronde anche sulla strage di Marzabotto, su cui è stato scritto molto, non c’era quasi nulla dal punto di vista narrativo. Invece, a volte è sufficiente uno spunto per stimolare delle curiosità, che servono poi per approfondire e soprattutto metabolizzare.

 Da cinquant’anni il 25 aprile è la festa della liberazione: si fanno cerimonie e discorsi ufficiali; ma per la maggioranza degli italiani è diventato un giorno di vacanza per andare a spasso o in gita fuori città. Forse non è più vero, come diceva il giornalista e partigiano Giorgio bocca che “la metà degli italiani è fascista”, forse ormai metà degli italiani semplicemente “non è antifascista” o non gliene importa molto: un problema ugualmente grave. E non trascorre ormai giorno in cui non si assista a sgangherate uscite revisioniste e nazionaliste da parte di esponenti del governo e più in generale dell’estrema destra italiana: il senso comune appare da tempo irrimediabilmente inquinato da luoghi comuni duri a morire, nutriti da deliberate mistificazioni. Come si può reagire?

Non è facile rispondere. Penso che si debba soprattutto evitare la retorica dell’antifascismo. Non ho ricette, con questo libro ho solo cercato di raccontare una storia provando a suscitare emozioni. Forse partendo dalle emozioni si può  reagire alle clamorose ingiustizie del nostro tempo.

Il richiamo all’esperienza della Resistenza è stato decisivo negli anni della ricostruzione e della rinascita democratica del Paese. Cosa occorre recuperare di quello spirito oggi?

La Resistenza univa la lotta di liberazione dal nazifascismo alla prospettiva di una  società più giusta. Penso che fino a quando non ci sarà una concreta prospettiva di cambiamento, verso una vera giustizia sociale, lo spirito della Resistenza non sarà recuperato.

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email

ti potrebbero interessare i seguenti articoli

Lascia un commento