In occasione delle celebrazioni per il 25 aprile, Festa della Liberazione dall’oppressione nazifascista, ospitiamo oggi un sentito e approfondito contributo editoriale scritto da Francesco Calculli, direttore della Casa Museo Storia del Comunismo e della Resistenza Antifascista di Matera, un altro museo che – lo diciamo con orgoglio – fa parte del network di MuseiMatera.
Buona lettura e buona festa della Liberazione!
Il nostro 25 aprile 2022. Italiane per la libertà
di Francesco Calculli
Per molti anni il concetto di Resistenza è stato legato storicamente al concetto di lotta armata contro l’invasore della nazione. È speculare a quello di esercito nazionale: sono gli uomini armati che difendono il suolo patrio, che ne hanno il dovere e poi l’onere. Come conseguenza di questa errata concezione la partecipazione delle donne alla Resistenza viene confinata pregiudizialmente alla capacità femminile di assolvere, sia pur “eroicamente”, delle funzioni del tutto tradizionali e subalterne, persino quando si svolge direttamente nella lotta armata; perché il vero protagonista della guerra partigiana non può che essere maschio.
La guerra è tradizionalmente una questione maschile; anche la guerra partigiana, nonostante la sua novità e diversità rispetto alla guerra tradizionale in quanto guerra di volontari, eticamente e politicamente motivati, non ha saputo o potuto innovare una tradizionale distribuzione dei meriti e delle gerarchie. Forse per le donne resistenti la definizione di protagoniste dimenticate non è esatta; in effetti, più che dimenticate, le donne sono state relegate in secondo piano, indispensabili comprimarie tutt’al più, ma non dirette protagoniste; destino comune tanto a quelle impegnate in molteplici forme di resistenza non armata, quanto alle partigiane che hanno rischiato o perso la vita partecipando direttamente e in prima persona alla lotta armata.
Se sul piano dei fatti è indubbio che quelle giovani che abbandonavano il focolare domestico e affrontavano la guerra alla pari dell’uomo, rappresentavano un atto di ribellione alla tradizione nazionale e alla mentalità moralistica del nostro Paese, non è meno rilevante vedere nella Resistenza un significativo capitolo dell’emancipazione femminile. Si scopriva la propria autonomia, l’emancipazione dal controllo patriarcale e dalla morale cattolica che relegava la donna al ruolo di “angelo del focolare”.
Accanto alle giovanissime, vi sono le ultratrentenni, alcune delle quali cresciute in famiglie con ideali antifascisti. E anche tante madri, che non vedono contraddizione tra cura della prole e impegno politico – militare. Le donne partigiane sono spinte da ragioni opposte a quelle delle “ausiliarie” fasciste: il rifiuto delle ingiustizie, la solidarietà con i perseguitati, il desiderio di costruire una società pacificata, fondata sui principi di libertà e uguaglianza.
Nel gennaio del 1945 il foglio clandestino “Noi Donne” fornisce un’efficace autorappresentazione della presenza femminile nel movimento di liberazione: «Vogliamo che tutti sappiano chi siamo e come siamo, vogliamo che tutti sappiano che partigiani non sono soltanto i giovani che insorgono contro l’arbitrio nazifascista, per sottrarsi ad imposizioni di violenze e di sangue. Ma tutti combattenti per un’idea che non si è spenta, ma chiarificata maggiormente illuminata in oltre vent’anni di oppressione, di carcere politico e di emigrazione. E vogliamo che si sappia delle donne partigiane. Siamo sorelle, spose, madri, donne come tutte le donne del mondo. Noi non siamo le vivandiere di un allegro esercito di predoni e di avventurieri, ma dividiamo con loro tutti i disagi. Quando la sera ci avvolgiamo nella nostra coperta sulla paglia della nostra baita, accanto ai nostri fratelli, prima che gli occhi si chiudano nel pesante sonno della stanchezza, i nostri discorsi sono discorsi di tutta la gente libera, amante della libertà, discorsi che preparano il nostro faticoso lavoro del domani, e i nostri sogni sono quelli di tutte le donne che vogliono una vita utile e sana, sogni di un focolare caldo e accogliente, e d’un lavoro dignitoso insieme a una famiglia felice e una società di uomini liberi ».
Nelle montagne, i primi gruppi di ribelli trovano proprio nelle donne – spesso (ma non sempre, come invece voleva una certa retorica) madri, mogli, sorelle, fidanzate, conoscenti dei partigiani – l’anello forte del collegamento con la società civile, con una prudenza e una ponderazione generalmente sconosciute ai maschi.
L’ingresso a tutti gli effetti nelle formazioni militari è frutto di due situazioni: da un lato, la scelta deliberata di battersi contro il fascismo, se necessario, anche con le armi; dall’altro, la necessità di sfuggire alla cattura, dopo essere state individuate quali antifasciste.
Le donne erano formidabili reclutatrici e, attraverso il rapporto con i soldati, disgregano le formazioni armate di Salò favorendo le diserzioni e assicurando vie di fuga verso luoghi sicuri; in questo modo s’infliggono danni superiori a quelli di una vittoria campale, in quanto la continua emorragia indebolisce i reparti dell’esercito della RSI e dunque allenta la pressione sui ribelli.
La straordinaria fotografia – qui sotto – della partigiana armata Prosperina Vallet (nome di battaglia “Lisetta”) scattata a inizio novembre 1944 in Val d’Aosta, durante la marcia per sfuggire ai rastrellatori nazifascisti e raggiungere il versante francese delle Alpi, simboleggia fatica e orgoglio delle resistenti.
Partigiane, staffette e antifasciste in genere, se arrestate si trovavano spesso vittime di violenza, per strappar loro con la tortura informazioni utili a sgominare le reti clandestine. Dalle fonti d’epoca e dallo spoglio della memorialistica emergono due dati, apparentemente contraddittori:
- il surplus di violenza fisica e psicologica inflitta alle prigioniere rispetto ai prigionieri;
- la capacità femminile di resistere alle sevizie, serbando più a lungo i segreti cospirativi.
È come se le donne riuscissero meglio a confrontarsi con la sofferenza generata dalla violenza e attribuissero maggior valore alla vita altrui, da esse difesa con dolorosi silenzi, invece di giovare a sé stesse rivelando nomi e strutture del ribellismo. Ufficiali e militari infieriscono sessualmente sulle prigioniere. Talvolta ciò accade “istituzionalmente”, per esempio a Vicenza, ad opera dei criminali dell’Ufficio politico investigativo diretto dai tenenti De Fusco e Zatti, e dal maggiore Mantegazzi. Nel Vicentino, le violenze sessuali da parte di ufficiali e sottufficiali sono talmente estese da provocare reazioni quali, nell’ottobre 1944, lo sciopero per alcuni giorni di centinaia di dipendenti del lanificio Cazzola, per chiedere la punizione del sottotenente Eolo Ghirelli e del capitano Nello Rastrelli, della Legione “Tagliamento”, violentatori di quattro operaie.
D’altronde questa formazione, comandata dal colonnello Merico Zuccari, si macchia di crimini quali lo stupro di partigiane condannate alla fucilazione e violate la notte precedente l’esecuzione: di questa doppia violenza è vittima il 26-28 giugno 1944, a Certaldo, la contadina marchigiana Angela Lazzarini.
In reparti della Legione “Muti” e delle Brigate nere si perpetrano stupri di gruppo. I violentatori sono protetti dall’ eccezionalità della situazione bellica e dal fatto che lo stupro, considerato dalla legge reato contro la morale e non contro la persona, non è mai punito con sentenze severe (soltanto nell’aprile 2019 è stato condannato dall’ONU come arma illegittima di guerra).
Vi è poi la terribile pagina della deportazione femminile, particolarmente dall’Italia nel Lager di Ravensbruck, dove si attuarono forme collettive di Resistenza alle atrocità naziste. Le cifre ufficiali della partecipazione femminile alla Resistenza indicano 35.000 combattenti, 20.000 “patriote” (ovvero fiancheggiatrici delle formazioni armate), 70.000 affiliate ai Gruppi di difesa della donna.
Le donne vittime della violenza nazifascista ammontano a 2750, le deportate a circa 3000, le arrestate e torturate a 4500. Si tratta di valutazioni approssimative, che non censiscono l’effettiva presenza femminile, anche a ragione dei criteri restrittivamente militaristi di concessione delle qualifiche. E, a fine guerra, moltissime donne non si preoccupano di richiedere il brevetto resistenziale, come sarebbe stato loro diritto pretendere.
Tuttavia, come si è accennato, nel dopoguerra, l’universo maschile e maschilista della Resistenza armata ridimensiona, stravolge, esclude, fino a tacerla, la presenza femminile. È il fenomeno della “Resistenza taciuta“, col prolungato silenzio sul ruolo rivestito da migliaia di donne, praticamente ignorate dalla storiografia. La Liberazione, affermerà poi la partigiana “Sergia” (Odilla Rossi, animatrice a Verona dei Gruppi di difesa della donna), «si è fermata sulla porta di casa». Avviene così, in modo brusco e moralista, l’uscita delle donne dallo spazio pubblico e il loro ritorno coatto nello spazio privato, dopo la breve uscita dai confini di genere.
L’influenza della morale d’epoca condiziona pesantemente le modalità di celebrazione della Liberazione: tranne l’importante eccezione dell’Emilia Romagna, dove alle celebrazioni della ritrovata libertà le formazioni sfilano a ranghi completi – maschi e femmine indossano le medesime divise e particolare importante impugnano le stesse armi – è abbastanza generalizzato che le grandi sfilate cittadine delle formazioni partigiane escludono le donne, nel timore di vederle tacciate pubblicamente di poco di buono e conseguentemente di compromettere l’immagine pubblica delle brigate.
Esemplare, in proposito, tra le numerose testimonianze, quella relativa alla sfilata dei partigiani che entrano in Alba il 10 ottobre del ’44 immortalata da Beppe Fenoglio: «Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città».
Le riflessioni del partigiano Fenoglio (“Johnny”) hanno come interlocutore i “benpensanti”, per i quali la semplice presenza femminile in un reparto maschile equivale a promiscuità sessuale, libertinaggio, semi-prostituzione ecc. In svariati casi, infatti, i “benpensanti” criticano le donne che lasciarono la famiglia per vivere in gruppi di giovani partigiani. Le maldicenze sono spesso veicolate dai parroci, tanto più che riguardano soprattutto ragazze estranee alla Chiesa e politicamente schierate (nel 1948, Pio XII scomunica chi vota comunista o socialista).
Ovviamente nelle formazioni ribelli non si viveva in modo monacale; tra giovani dei due sessi sono normali sentimenti di amicizia, fraternizzazione, amore, attrazione fisica. «Occorreva stare molto attente – ricorda la partigiana combattente Vittoria Caula – a evitare lo svilupparsi eccessivo delle simpatie, degli affetti, delle gelosie che potrebbero creare grosse conseguenze. Doveva sempre emergere il senso di responsabilità». In questo quadro, è quindi comprensibile che sia la partigiana “informe, materna, in età non sospetta”, protagonista di L’ Agnese va a morire, scritto dalla garibaldina Renata Viganò e pubblicato nel 1949 da Einaudi, a incarnare l’archetipo della donna resistente, centrato su un’ideale madre di famiglia, al di sopra di qualsiasi sospetto d’intesa sessuale con i compagni di lotta clandestina.
Negli anni Sessanta e Settanta ebbe fortuna il mito della “Resistenza tradita”, con un’interpretazione critica della politica del dopoguerra. In realtà, a ben vedere, se tradimento vi fu, esso ha riguardato le donne, tradite due volte: dalle forze politiche tradizionali e dai loro stessi compagni di lotta che, a guerra finita, svalutarono il loro apporto riducendolo ai margini di un generico “contributo“. Pertanto emanciparsi dal concetto maschilista della Resistenza è possibile solamente rifiutando il paradigma del partigiano – “cittadino maschio in armi dotato di chiara consapevolezza politica, come unico protagonista dell’unica, vera, autentica Resistenza”.
Sono tante le donne, che accanto alle partigiane in armi, hanno versato il loro obolo di sangue. Quel sangue formerebbe un rio. Erano con le vesti di casa, con i piccoli in braccio, intente alle loro mansioni. Genny Bibolotti Marsili, a Sant’ Anna di Stazzema, scagliò uno zoccolo contro il nemico nazista per salvare suo figlio. Gabriella Degli Esposti, già madre due volte e in attesa di esserlo ancora, staffetta partigiana a Castelfranco Emilia, oppose il silenzio a inenarrabili torture.
Addolorata Sardella corse per le strade di Barletta, rese silenziose e ostili per il terrore, in cerca di aiuto, per cavare un ferito dal mucchio di cadaveri. Aveva visto la sua mano agitarsi, aveva visto i suoi occhi imploranti. Alle prime due è stata assegnata la medaglia d’oro, il nome di Addolorata vive su una targa in una via della periferia della sua città. Sono loro la forza del mondo, sono loro il coraggio, sono loro la creatività.
Aveva completa ragione Paola Lombroso Carrara, moglie di uno dei 13 professori universitari che dissero no al fascismo, a mettere la donna al centro dell’universo. Scrisse:« Fu veramente Anna Kuliscioff che dalla pallida crisalide di un poeta nevrastenico trasse l’ardito leader dei socialisti italiani, che con l’intuito femminile seppe risvegliare tutte le energie magnifiche che giacevano sonnecchianti e inutilizzate nell’anima di Filippo Turati ».
E se la memoria di cui si sostanzia la nostra identità culturale e nazionale sceglie deliberatamente di oscurare la parte femminile della Resistenza armata, perpetrando un assurdo paradosso per un esercito volontario, visto che le sole volontarie a pieno titolo nella Resistenza sono le donne; noi, al contrario, oggi 25 Aprile – Festa della Liberazione – vogliamo rendere omaggio a tutte le donne resistenti ricordando i profili di alcune “italiane per la libertà” che con eroismo, audacia, coraggio, spesso pagando con la propria vita, hanno cambiato il corso della nostra storia.
IRMA BANDIERA
Bologna 1915 – Meloncello di Bologna 1944. Di famiglia benestante, dopo l’8 settembre del ’43 aderisce alla Resistenza e opera presso il comando regionale come staffetta di collegamento e per il trasporto di armi; fa parte, inoltre, della VII Gap ( Gruppi d’azione patriottica). Catturata il 7 agosto 1944, dopo avere trasportato armi alla base di Castel Maggiore, viene trovata in possesso di documenti partigiani e arrestata. Sottoposta a tortura, si rifiuta ripetutamente di rivelare i nomi dei suoi compagni.
Accecata e gravemente ferita a causa della violenza degli interrogatori, a una settimana dall’arresto viene trasportata nei pressi della sua abitazione al Meloncello, ai piedi della collina di San Luca, dove è inutilmente invitata a rivelare le notizie in suo possesso. Il suo silenzio deciso spinge i tedeschi a ucciderla sul posto con una scarica di mitraglia. Il suo corpo verrà abbandonato sulla pubblica via per una intera giornata, esposto come monito a tutta la popolazione del luogo.
Oggi è considerata uno dei simboli della partecipazione cospicua delle donne alla Resistenza civile.
CARLA CAPPONI
Roma 1918 – Zagarolo 2000. Studentessa di medicina, dai giorni dell’armistizio entra nei primi gruppi della resistenza romana, distinguendosi per coraggio e capacità di azione. Fa parte di una banda partigiana, come vicecomandante, che opera alla periferia della città e in provincia, nella zona tra Valmontone e Palestrina.
Arruolata nei Gruppi di azione partigiana (Gap), organizza numerosi atti di sabotaggio ad automezzi e installazioni nemiche. Segue la preparazione del materiale e del piano dell’attentato di via Rasella assieme al gappista Rosario Bentivegna, e con lui ne è principale protagonista il 23 marzo 1944.
Dalle settimane successive alla rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine – 24 marzo- opera a riannodare le fila della cospirazione e della Resistenza fino alla liberazione di Roma. Tra i dirigenti della federazione comunista romana nel dopoguerra viene eletta alla Camera dei deputati il 7 giugno 1953 e rieletta per le successive legislature fino al 1976. Partecipa in modo significativo allo sviluppo del movimento femminista italiano ed è una delle fondatrici dell’Udi; continua a essere tra i dirigenti dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) sino a tarda età.
GIULIETTA LINA FIBBI
Fiesole 1920 – Roma 2018. Nel 1923 la sua famiglia deve emigrare in Francia da Fiesole per le violenze e le persecuzioni fasciste. Operaia tessile, nel 1937 diviene dirigente dell’Unione delle ragazze francesi della regione del Rodano. Con l’inizio della guerra Lina viene arrestata e internata nel campo di Rieucros, assieme ad altre dirigenti antifasciste italiane.
Nel 1941, per decisione degli organi dirigenti del PCI, rientra in Italia per svolgere attività cospirativa, ma viene arrestata ancora a Ventimiglia e tradotta nel carcere di Firenze. Viene rilasciata dopo sei mesi in mancanza di prove a suo carico, ma con un periodo di due anni di ammonizione e, quindi, di sorveglianza speciale.
Il 25 luglio 1943 è chiamata a operare nel servizio clandestino della direzione del PCI dell’Interno. Con la costituzione del comando generale delle brigate Garibaldi a Milano entra a far parte della segreteria del medesimo nell’autunno successivo.
Lina Fibbi partecipa all’attività preparatoria che condurrà alla costituzione dell’organizzazione dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà assieme a Giovanna Barcellona, Rina Picolato, Ada Marchesini Gobetti, Lina Merlin (PCI, PDA, PSI). Il suo compito prevalente rimane tuttavia quella di addetta all’ufficio di segreteria del comando generale garibaldino. In tale ruolo svolge numerose, delicate missioni di collegamento, trasmissione di disposizioni, controllo, nei confronti delle formazioni partigiane di diverse regioni e dei triumvirati insurrezionali organizzati in ogni provincia dalla direzione del PCI. Dopo la liberazione assolve a vari compiti politici e sindacali: tra questi, è per molti anni segretaria nazionale della Federazione degli operai tessili della CGIL.
Lina Fibbi sarà eletta alla Camera dei deputati nelle legislature quarta (1963-1968) e quinta (1968- 1972).
IRMA MARCHIANI
Firenze 1911- Pavullo nel Frignano, Modena 1944. Nasce a Firenze, ma già nel 1915 si trasferisce con la famiglia a La Spezia, ove frequenta con profitto le scuole elementari, dimostrando una spiccata attitudine al disegno. L’ambiente familiare è decisamente antifascista: nel 1923 il padre ferroviere viene licenziato «per scarso rendimento»; nel 1928 il fratello aderisce al PCD’I e organizza il Soccorso rosso.
Nel 1924, Irma è costretta a lasciare la scuola e a cercare un’occupazione per contribuire allo scarso bilancio familiare. Lavora presso una modista, poi come ricamatrice e vetrinista. Affetta da disturbi bronchiali, comincia a recarsi ogni anno a Sestola, sull’Appennino modenese. Dopo l’8 settembre 1943, trovandosi per motivi di salute nel Frignano, partecipa fin dai primi giorni alla guerra di liberazione, collaborando quale informatrice e staffetta con le formazioni partigiane locali. Nel maggio 1944 entra a far parte della brigata Garibaldi Roveda e viene assegnata al battaglione Matteotti.
Partecipa ai combattimenti di Montefiorino (giugno 1944) e nell’agosto viene arrestata mentre cerca di avere dal podestà del paese un documento di identità per fare ricoverare un partigiano gravemente ferito. Dopo le torture sofferte nella prigione di Fanano viene condotta nel campo di concentramento di Corticella, in vista della deportazione in Germania. Riesce a evadere e a raggiungere la sua formazione ove, ai primi di settembre, è nominata commissario e, successivamente, vice comandante di battaglione.
In seguito ai combattimenti di Benedello, rimane sola in territorio occupato e si deve alla sua opera di infermiera se molti partigiani feriti riescono a salvarsi, nonostante la scarsità di medicinali. La mattina del 12 novembre, mentre con la formazione ridotta senza munizioni tenta di attraversare le linee, è catturata da una pattuglia tedesca e portata nelle carceri di Pavullo nel Frignano.
Dopo quindici giorni di detenzione, alle 17:15 del 26 novembre viene passata per le armi.
RITA ROSANI
Trieste 1920 – Verona 1944. Ebrea, figlia di genitori cecoslovacchi (Rosenthal) naturalizzati italiani con cognome Rosani, si diploma maestra elementare nel 1938. Le leggi razziali fasciste del settembre di quell’anno le impediscono di esercitare la professione nella scuola pubblica; Rita insegna per qualche tempo nella scuola elementare israelita di Trieste (dove la comunità ebraica è numerosa). In quegli anni tutti i suoi parenti residenti nella Cecoslovacchia occupata dai tedeschi vengono deportati e scompariranno nei campi di concentramento.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con l’annessione di Trieste alla Adriatisces Kustenland governata dal Gauleiter della Carinzia Rainer, messi al sicuro gli anziani genitori in un paese del Basso Friuli, Rita partecipa alla nascita della resistenza nella zona di Portogruaro, dove svolge un’intensa attività di collegamento tra i diversi gruppi. Poi passa in provincia di Verona, dove con altri tre compagni costituisce il nucleo iniziale della banda Aquila che nel periodo successivo sale a una ventina di combattenti. Il colonnello del regio esercito Umberto Ricca assume il comando della formazione, attestatasi nella zona di Monte Comune, sovrastante la Valle dell’Adige, strettamente controllata da innumerevoli presidi nazifascisti, data la sua decisiva importanza per l’armata tedesca in Italia. In una riunione al comando della brigata Autonoma Vicenza – poi Pasubio – in vista della fusione tra le due formazioni, Rita Rosani rivendica orgogliosamente la sua condizione di partigiana ebrea affermando: «Sono partigiana come voi, ma rischio tre volte più di voi, perché voi sapete cosa fanno tedeschi e fascisti alle donne quando le catturano e poi io sono una donna ebrea» (sono ancora vivi alcuni partecipanti a quella riunione che tutt’ora ricordano la vicenda).
Nel settembre ’44, a partire dalla Lessinia si abbattono in rapida successione le operazioni Pauke, Hannover e Piave che sconvolgono, con migliaia di morti e di deportati e terribili distruzioni, l’arco prealpino veneto fino al Grappa e al Cansiglio. I rastrellamenti sono preceduti dalla ” ripulitura” delle periferie dell’area investita, tra le quali, appunto, il Monte Comune.
Il 17 settembre la banda Aquila è attaccata da forti reparti fascisti. Rita Rosani rifiuta di ritirarsi, partecipa al combattimento nel quale muoiono due compagni e altri rimangono feriti finché, gravemente colpita, cade in mano nemica. È lasciata agonizzare fino a quando un ufficiale di Salò le dà il colpo alla nuca. Così a Rita Rosani viene risparmiato il destino riservato alle donne partigiane, ebree, catturate vive. All’ingresso del tempio israelitico di Verona un’epigrafe reca in ebraico il passo della Bibbia: «molte donne si sono comportate con valore, tu tutte le superi».
Referenze bibliografiche
L’articolo è stato redatto con il supporto di testi custoditi nella biblioteca della Casa Museo Storia del Comunismo e della Resistenza Antifascista di Matera:
- Santo Peli – Storia della Resistenza in Italia, Enaudi 2004
- Roberto Battaglia – Storia della Resistenza Italiana, Einaudi 1953
- Enzo Nizza, Pietro Secchia – Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza ( 6 volumi), La Pietra 1968-1989
- Paolo Spriano – Storia del Partito comunista italiano vol.V – La Resistenza.Togliatti e il partito nuovo, Einaudi 1975
- Gad Lerner e Laura Gnocchi – Noi Partigiani, Feltrinelli 2020
- Renata Viganò – L’Agnese va a morire, Einaudi 1974
- La testimonianza di Beppe Fenoglio è tratta da I ventitre giorni della città di Alba, pubblicato in Romanzi e Racconti, Einaudi 1992.