Storia di Dina Caprara, la pasionaria comunista

Una giovanissima Dina alla manifestazione della Festa Nazionale dell' Unità, Milano, 1968. ( foto, collezione 2024, Museo del Comunismo e della Resistenza )

Articolo di Francesco Calculli, direttore della Casa Museo del Comunismo e della Resistenza di Matera

Introduzione

Lo splendido racconto che leggerete in questo articolo è nato a Matera in un caldo pomeriggio di agosto del 2024, nella Casa Museo del Comunismo e della Resistenza, lì dove i segni potenti del secolo del lavoro sono ancora incisi nell’ almanacco dei tanti cimeli e dei mille personaggi (e che qui abbiamo raccolto), e che sono ancora oggi la carta d’identità della sinistra.

Erano quasi le 17:30 di venerdì 9 agosto, quando al Museo era venuta una donna che poteva avere gli anni di mia madre e che mi dice: «Ciao, ho saputo la bella notizia del Museo sul Comunismo, e sono venuta a Matera per vederlo». Chiedo: «Così mi fai morire di curiosità : di dove sei?». E lei, che si chiama Dina Caprara, sfoggiando un grande sorriso e con occhi emozionati: «Sono una compagna di Milano, ho le tessere del PCI di mio padre ,le tessere dell’UDI di mia madre, giornali, fotografie, una montagna di distintivi comunisti che vorrei donare al vostro museo. Resterai stupito , è un altro capitolo di questa storia».

Non c’era frase che potesse intrigarmi di più, e mi ero subito reso conto che, più che una visita al museo, quella giornata era diventata l’incontro – confronto con una donna che è la memoria vivente di una generazione di militanti che ha seguito tutte le complicate svolte della sinistra non solo italiana nel corso di mezzo secolo. Una generazione che dopo la dissoluzione della sua comunità politica è ancora in piedi e che in questo Paese è sopravvissuta a qualsiasi tempesta.

Parlammo tutto il pomeriggio fino a tarda sera, ero con un’amica, come se ci conoscessimo da una vita. E così , quel racconto della militanza di Dina è entrato in cortocircuito con il presente: è diventato attuale senza che io lo avessi previsto perché il racconto di questa complessità ci aiuta anche oggi che la sinistra è divisa e zavorrata e avvelenata da una classe dirigente invertebrata e pavida che continua a guardare la realtà ancora una volta, senza capirla. Ed ecco perché la storia della militanza di Dina può rappresentare una lezione utile per la stagione che stiamo vivendo, dopo la vittoria della destra neofascista nelle politiche del 2022.

Dina Caprara in visita al Museo del Comunismo e della Resistenza, Matera, 9 Agosto, 2024
Dina Caprara in visita al Museo del Comunismo e della Resistenza, Matera, 9 Agosto 2024

 

La biografia di Dina è fin da bambina tutta nella storia del PCI milanese, anzi è un autobiografia e un racconto per immagini del comunismo italiano nel Novecento. Se fosse un libro sarebbe “Confesso che ho vissuto” di Pablo Neruda, fervente comunista anche lui, perché in ognuno dei capitoli della vita militante intensa e per molti aspetti totalizzante della compagna Dina, a ben vedere, si può rintracciare il bandolo di una morale utile, uno strumento di cui la sinistra di oggi ha un grande bisogno. C’è una frase molto bella, di Dina Caprara, che è stata la mia bussola in questo racconto: «Io mi sento ancora comunista. Mi sono avvicinata già da ragazza alla politica come impegno ideale. Nel mio spirito ribelle per natura ho sentito il bisogno di oppormi ai vecchi schemi sociali e istituzionali. C’era soprattutto la voglia di cambiare il mondo. E lo farò fino alla fine della mia vita».

Non c’è un’altra strada, dunque. Devi caricarti sulle spalle tutte le passioni del mondo, devi nominarle e saperle raccontare per nome e cognome , devi eleggere gli ultimi come tuo popolo, anche solo per poter parlare ai primi. È una lezione che io ho imparato anche andando alla enorme manifestazione al Circo Massimo, a Roma, il 23 Marzo 2002 per la difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Un lungo fiume rosso di tre milioni di persone, il popolo di Gramsci, Togliatti e Berlinguer.



Dina è davvero nata comunista perché rivendica con orgoglio di provenire da una famiglia contadina e operaia, eppure per lei non esiste un essere comunisti, ma al contrario, citando le parole testuali di Berlinguer, Dina mi dice che «esiste un divenire comunisti , anche in modo critico e dialettico, ovvero una progressiva presa di coscienza che andava avanti nel corso della vita, con l’esperienza che ognuno di noi si faceva». Tutt’oggi il suo impegno militante continua come passione per il canto popolare e sociale in gruppo, i SEMPREASUD e le “Voci di Mezzo“. È il modo di Dina di trasmettere la storia dei deboli, degli sfruttati e degli emarginati. Ed è a questo punto che la vedi come un’«ultimista». Suona bene, ma cerco di spiegarvela. Ultimista perché, fra tutte le variegate specie di comunisti che ho conosciuto nella mia vita, tutti quelli che erano comunisti davvero, intellettuali o popolari, ricchi o poveri, lo erano perché erano dalla parte degli ultimi. E poi ultimisti, perché ultimi di un tempo che a un certo punto è finito e ne è iniziato un altro. Gli ultimisti sono gli ultimi che si chiudono la porta alle spalle, e riescono a portare dietro qualcosa che serve e non va perso, del tempo vecchio, in quello nuovo. Ecco, rivedo tutta quella straordinaria massa di popolo al Circo Massimo nel 2002, e la foto in bianco e nero con una giovanissima Dina alla manifestazione del Primo maggio del 1974, il pugno alzato che, con la sorella, mostrano orgogliosamente la prima pagina dell’Unità dal titolo W IL PRIMO MAGGIO, mentre sospeso un po’ a metà, suo zio accenna un sorriso che sembra dire: «Sono fiero delle mie nipoti». E mi rendo conto che sono tutti ultimisti. Lo sono anche io, ovviamente. E temo che adesso lo siate anche voi che state leggendo.

La prima cosa che chiunque guardi quella foto capisce, a meno di non conoscere questa storia, è che senza memoria non c’è futuro. E il futuro di chi vince, oggi come allora, quando il cambiamento irrompe sulla scena, ha sempre radici antiche.

Dina Caprara al tradizionale corteo del Primo Maggio. Milano, 1974 ( foto, collezione 2024, Museo del Comunismo e della Resistenza )
Dina Caprara al tradizionale corteo del Primo Maggio. Milano, 1974 ( foto, collezione 2024, Museo del Comunismo e della Resistenza )

 

Una giovanissima Dina alla manifestazione della Festa Nazionale dell' Unità, Milano, 1968. ( foto, collezione 2024, Museo del Comunismo e della Resistenza )
Una giovanissima Dina alla manifestazione della Festa Nazionale dell’ Unità, Milano, 1968. (foto, collezione 2024, Museo del Comunismo e della Resistenza)

Dina, una storia politica al femminile

Dina Caprara nasce a Milano il 5 settembre 1949 in una famiglia proletaria in cui i valori della solidarietà e della giustizia sociale erano alla base del modo di vivere . Il padre Carlo , militante comunista e sindacalista in fabbrica, nel 1933, a 13 anni, era emigrato a Milano con tutta la famiglia da Bondeno di Gonzaga, un piccolo paese , nella bassa campagna mantovana. Bruna, la madre, si era opposta all’educazione confessionale della sua famiglia, e seguendo l’esempio del marito nell’impegno sociale e politico, è stata una convinta paladina dell’emancipazione femminile e anche una tra le più attive promotrici della raccolta di firme per la pace negli anni ’50. In questa famiglia dove si respirava un’aria di passione e voglia di riscatto, Dina si era avvicinata alla politica già da piccola, quando a soli 5 anni i suoi genitori l’hanno iscritta ai Pionieri, un’organizzazione emanazione di quella esistente nell’ URSS, dove si svolgevano attività di musica, teatro e gioco . Il suo giornalino era “il Pioniere” a fumetti con un contenuto sociale ben definito di “classe”.

Nel 1962, Dina aveva 13 anni, quando partecipa alla sua prima manifestazione contro la guerra in piazza duomo a Milano, dove assiste alle cariche brutali della polizia. A 14 anni Dina prende la prima tessera della FGCI, l’organizzazione giovanile del partito comunista e inizia ad approfondire la sua formazione culturale e ideologica attraverso le letture del Diario di Anna Frank, 40 giorni e 40 notti di Teresa Noce, I 10 giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, Il Placido Don di Michail Solochov e la Madre di Maksim Gorkij, due romanzi annoverati fra i capolavori della letteratura russa.

A 16 anni Dina ha ottenuto anche un premio per la più giovane diffonditrice di “Noi Donne, il giornale dell’ UDI ( Unione Donne Italiane). In quell’occasione Dina rilascia un’intervista su Noi Donne che rivela il suo carattere ribelle e anticonformista. Ecco cosa dice una giovanissima Dina: «I servizi più interessanti non sono mai stati inseriti nelle pagine. Faccio un esempio: l’amore a sedici anni , i rapporti tra madri e figlie ecc. La pagina 20 è molto frivola, secondo me, mentre le giovani non pensano solo alle frivolezze». Questa sua risposta è un atto di coraggio e di grande consapevolezza che suona persino un po’ scandalosa, se si considera che in quei primi anni ’60 parlare d’amore tra adolescenti e del rapporto tra genitori e figli rimaneva ancora un tabù anche all’interno di una comunità, quella del partito comunista, che all’epoca era permeato da un rigido moralismo.

Rivista “Noi Donne ” 1965 e 1966, particolare delle pagine interne dedicate alla sedicenne Dina premiata come la più giovane diffonditrice

Dina inizia prestissimo a lavorare, prima con brevi lavoretti, poi come segretaria in un’azienda, frequentando contemporaneamente corsi serali di tedesco e inglese. C’era un gran fermento nella fabbrica dove lavorava, e nel 1966 quando iniziarono gli scioperi per il contratto, Dina viene guardata con diffidenza perché si dedica con passione a organizzare gli incontri di lavoratrici che cominciano a rivendicare i diritti sia sul lavoro che nel privato. Un giorno, propose alle impiegate del suo ufficio di arrivare tutte insieme con i pantaloni ( allora era d’obbligo vestirsi con le gonne), sfidando il capoufficio che le vide arrivare una mattina tutte con i pantaloni. Fu uno scandalo, ma vinsero la loro piccola battaglia. In quel tempo nel PCI si erano formate le commissioni femminili dove Dina e le compagne potevano parlare dei loro problemi senza pudori e paure di essere giudicate, anche se dagli uomini del partito il fatto di vederle riunite da sole , veniva considerata una forma di separatismo inutile e anche dannoso. Ad un’assemblea nel suo quartiere, Dina intervenne portando la sua testimonianza di giovane lavoratrice alla presenza di Nilde Iotti, che diventò il suo modello di riferimento come donna perché aveva sfidato il moralismo e il perbenismo del PCI degli anni ’50 andando a convivere con il suo compagno Togliatti, che era già sposato con Rita Montagnana, compagna molto stimata all’interno del partito. Fu in quella occasione che Nora Fumagalli, allora dirigente del PCI, le propose di lasciare la fabbrica e diventare una funzionaria del partito. Così a settembre del 1970, Dina si trasferì a Roma per frequentare un corso di tre mesi alle Frattocchie, la scuola ufficiale di politica del PCI. Fu per lei un ‘esperienza straordinaria di autonomia e libertà. Al ritorno da Frattocchie, Dina piena di conoscenze e carica di entusiasmo inizia il lavoro politico verso le ragazze e successivamente la incaricarono di seguire le fabbriche soprattutto sul tema della salute.

Fece il suo primo comizio all’ingresso di una fabbrica di sole donne, davanti a lei non c’era nessuno ed era impacciata. Nora, il suo mentore, la guardò e disse: «Non ti preoccupare loro ti ascoltano dietro alle finestre perché hanno paura di uscire». Così prese i suoi foglietti dove aveva scritto tutto e cominciò a parlare al megafono. Ricorda Dina: «Tremavo tutta e non capivo che cosa stava succedendo, non avendo interlocutori, ma i comizi erano così soprattutto davanti alle fabbriche dove ancora c’era la paura del padrone e di eventuali persecuzioni. Andavo da sola con la mia cinquecento rossa, mettevo gli altoparlanti sul tettuccio , collegavo i cavi alla batteria e, microfono alla mano, iniziavo a parlare».

Nel 1971 le proposero di fare la responsabile femminile nella zona Brianza, un territorio vastissimo dal confine con il Lecchese – Comasco a quello di Bergamo. Dina si spostava in continuazione da un paese all’altro, parlando con i compagni uomini che non erano abituati a vedere uscire le loro donne per fare politica. Spesso faceva le riunioni nelle case per raggiungere le compagne che altrimenti non sarebbero mai andate in sezione . Dice Dina: «Per me emanciparsi significava che potevo fare le stesse cose che fa un uomo e avere gli stessi diritti e privilegi. Concetto che successivamente ho cambiato riconoscendo le diversità».

Uno degli argomenti che usava spesso negli incontri con le donne, anche pubblici, era la necessità del lavoro come elemento indispensabile di autonomia per la loro emancipazione nella società capitalista e maschilista. Si parlava di procreazione consapevole , per non rimanere schiave della casa e dei figli. Inoltre, la battaglia per gli asili nido come servizi pubblici a disposizione delle donne lavoratrici era accompagnata dalla sua interpretazione che la società avrebbe dovuto costruire asili notturni per permettere maggiore libertà alle donne. Dina ne era convinta perché il concetto che voleva far passare era la costruzione di servizi sociali fondati sulla solidarietà di cui tutta la comunità ne potesse usufruire. Solo anni dopo , soprattutto quando nacque suo figlio, comprese che erano proposte un po’ azzardate. E Dina: «In quegli anni abbiamo lottato e conquistato molte leggi nuove, lo statuto dei lavoratori, una migliore tutela della salute in fabbrica, la parità di salario uomo donna, gli asili nido, il diritto di famiglia, e non meno importanti la legge sul divorzio e quella sull’ aborto. Di questo dobbiamo ringraziare i radicali che si sono fatti promotori convinti, trascinando poi il PCI che tentennava su temi di cui non c’era abitudine a parlarne».

Poi grazie a Dina e a tante compagne coraggiose nel 1971 venne abolito l’art. 533 cod. penale “reato contro la stirpe” che condannava le donne che facevano uso degli anticoncezionali per il controllo delle nascite; e finalmente, con la Legge del 5 agosto 1981 n 442 “Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore”, l’Italia si sbarazzò in un unico colpo di nozze riparatrici e di delitto d’onore.




Nel 1974, il partito mandò Dina in un paesino del Sassarese dove si teneva la campagna elettorale regionale. A quei tempi si usava mandare i funzionari a fare esperienze in altre regioni italiane per conoscere situazioni diverse. Poi nel 1977 Dina fu la prima donna responsabile di zona della provincia di Milano ( Corsico – Rho). I tempi stavano cambiando anche all’interno del partito: i compagni si abituarono ad essere diretti dalle donne, cresceva la considerazione nei loro confronti e non venivano più relegate solo al ruolo di responsabili femminili. Un suo ricordo: «1979, le prime elezioni europee. Mi chiedono di presentare Enrico Berlinguer al comizio di piazza Duomo a Milano. Tremavo dell’emozione. Io al suo fianco, lui un po ‘ ricurvo. Tatò che gli passa un bicchiere di thè caldo. Dopo averlo presentato lui mi sorride e mi ringrazia. Non dimenticherò mai quel suo modo gentile».

Gli anni ’70 furono caratterizzati anche dal terrorismo delle Brigate rosse che consideravano il PCI come un partito non rivoluzionario, e che nel loro delirio eversivo vedevano in Enrico Berlinguer un traditore degli ideali del marxismo leninismo, e quindi un nemico da eliminare. Fu soprattutto il periodo terribile della strategia della tensione con le stragi di chiara matrice neofascista: nel 1969 la bomba a piazza Fontana a Milano, e a seguire nel ’71 le bombe ai treni per Reggio Calabria, e nel ’74 la bomba di piazza della Loggia a Brescia. Già nell’ ottobre del 1973, Berlinguer, all’indomani del golpe di Pinochet, presentò sulla rivista Rinascita un documento noto con il titolo di “Riflessioni sull’italia dopo i fatti del Cile“, in cui si parlava di unità con le altre forze democratiche per evitare che le destra neofascista con la partecipazione attiva della CIA , potesse fare anche in Italia un colpo di stato militare come nei Paesi dell’ America Latina. Iniziò il dialogo con Aldo Moro e nel partito ci fu un vivace dibattito sul “compromesso storico” , con la stessa Dina che su questa svolta politica aveva molte perplessità. In quegli anni ’70/80, il PCI che si distingueva da altri partiti comunisti nel voler convintamente cercare una sua via nazionale al socialismo, aveva operato il cosiddetto “strappo” con l’Unione Sovietica che rimaneva ancora un modello da seguire in funzione anticapitalista, ma la cui egemonia sul mondo comunista era ormai destinata a un irreversibile declino con la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ Ottobre.

Nel ’78, l’assassinio di Moro per mano delle BR, ma parte di una strategia destabilizzante diretta dai servizi segreti americani, italiani e israeliani ( come dimostrato da recenti analisi dei fatti), e successivamente nel 1980 la strage fascista alla stazione di Bologna, provocarono in Dina molte riflessioni e una profonda disillusione perché nonostante la grande avanzata del PCI e anzi proprio per questo, lo spessore reazionario della società italiana era sostanzialmente unito nel perseguire una strategia eversiva che impedisse ai comunisti di andare al governo del Paese.

L’esperienza come responsabile di zona terminò nel 1979. Dina, dopo dieci anni di lavoro politico a tempo pieno, sentiva la stanchezza e voleva lasciare il suo incarico di funzionario di partito. Fu allora che le proposero di trascorrere un periodo di tre mesi a Mosca alla scuola internazionale dei partiti comunisti. Dina partì dall’Italia per Mosca i primi di settembre del 1979 con un gruppo di dieci “prescelti” di cui due donne. Non era un corso ideologico bensì un’esperienza di conoscenza della vita nell’ URSS. Visitarono molte città, fabbriche , circoli di donne, e il 7 novembre assistettero alla sfilata in memoria della Rivoluzione d’ Ottobre, nella piazza Rossa, seduti, in quanto compagni italiani “privilegiati”, nella tribuna delle delegazioni internazionali e ben equipaggiati per il freddo a meno dieci gradi. Dina ne rimase affascinata, ma percepì una certa decadenza guardando il palco d’onore con tutti i massimi dirigenti del PCUS, il presidente Breznev gli appariva invecchiato e quasi sostenuto da due guardie del corpo. In quel periodo a Mosca, Dina ebbe occasione di parlare anche con uno dei figli di Antonio Gramsci, Giuliano, musicista, cresciuto nell’ Unione Sovietica e che non aveva conosciuto suo padre se non per ciò che aveva letto su di lui. Inoltre non mancò la visita d’obbligo al mausoleo di Lenin, sorpassando, ricorda Dina «con nostra vergogna», una lunghissima fila di persone che ogni giorno venivano ad onorarlo».

Al ritorno da Mosca le venne proposto di seguire il lavoro internazionale, il mondo della solidarietà, degli esuli politici del sud America, le associazioni internazionali presenti a Milano, come la Lega per i diritti dei popoli e altre di solidarietà con vari movimenti di liberazione palestinesi, eritrei, iracheni, iraniani, turchi. Fu per Dina una rinascita che apriva i suoi orizzonti oltre i due blocchi USA-URSS a un mondo in cambiamento. Furono cinque anni intensi e costruttivi, e in questa esperienza non priva di rischi per la sua incolumità l’ aiutò molto la lettura di un saggio di Berlinguer sulla cooperazione internazionale dal titolo “La Carta della pace e dello sviluppo“. La sua attività consisteva nel mettere in contatto questi compagni esuli con le istituzioni italiane favorendo il loro inserimento a Milano (casa, lavoro) ma soprattutto per costruire iniziative di sostegno e solidarietà con le loro lotte di liberazione. Inoltre il suo compito era anche quello di accogliere e organizzare gli incontri con le delegazioni dei partiti comunisti “fratelli”. Erano momenti formali chiamati di “amicizia e scambio”.

Particolarmente emozionante fu per Dina l’incontro con il padre di Ernesto “Che” Guevara, che venne a Milano a discutere con la Feltrinelli l’edizione di un nuovo libro su suo figlio. Nel 1985 la nascita di suo figlio Andrès segnò una svolta nella vita di Dina perché il suo essere madre non era più compatibile con l’impegno a tempo pieno nel partito. I contatti che aveva costruito la avvicinarono al mondo della cooperazione internazionale dove trovò un lavoro presso il COCIS ( Coordinamento delle ONG laiche in Italia). Inoltre da circa 20 anni Dina segue con interesse lo studio della medicina cinese e dello Shiatsu, di cui ha fatto anche pratica. Gran parte della vita di Dina è stata totalmente assorbita dalla politica non tanto come mezzo per fare carriera, ma come passione.

Dina Caprara canta a un concerto del gruppo le "Voci di Mezzo" svoltosi nel 2023
Dina Caprara canta a un concerto del gruppo le “Sempreasud” svoltosi nel 2023

 

Oggi che il mondo sembra stia vivendo una fase di transizione pericolosa e instabile, segnata da due guerre principali, quella in Ucraina e quella a Gaza, da un attacco senza precedenti ai diritti umani fondamentali, e da cambiamenti climatici sempre più estremi, frequenti e devastanti, Dina la “Pasionaria” continua a sentire tanta rabbia e il bisogno di fare qualcosa e non rassegnarsi alla banalità del quotidiano. Del resto, nel suo spirito ribelle c’ è ancora il bisogno di opporsi di quella ragazza di 16 anni che aveva capito come tanti ragazzi e ragazze della sua generazione, che non basta immaginare, ma che bisogna pretendere un mondo migliore. E Dina lo rivendica con l’orgoglio della sua storia di militanza: «Questo non me lo toglieranno mai, perché lo rifarei ancora fino all’ultimo respiro».

Francesco Calculli e Dina Caprara –  Matera , 16 Settembre 2024

Intervista a Dina Caprara

a cura di Francesco Calculli

1. Da ragazzo avevo seguito il travaglio incredibile che si era aperto nel partito sulla svolta della Bolognina, e nel 2021 da storico mi sono ritrovato a ricostruire il dibattito che si era acceso in occasione del centenario della nascita del PCI , scrivendone. Ma cos’è rimasto oggi di quella Storia di cui tu sei stata un pezzo importante ? E non posso fare a meno di chiederti come la compagna Dina che ha dedicato gran parte della sua vita alla lotta per affermare gli ideali comunisti nella società, ha reagito alla caduta del muro di Berlino, alla dissoluzione dell’ URSS, e soprattutto nel 1991 alla fine del PCI con la nascita del PDS e quella di Rifondazione comunista?

Per rispondere a questa domanda devo ritornare a rivivere i sentimenti di allora, il più possibile fedeli al mio pensiero di quel momento storico. Lasciai l’attività politica a tempo pieno nel 1985, quando nacque mio figlio, dopo più di 15 anni di funzionaria nel PCI. Già nel 1978/79 entrarono in crisi le mie speranze di vedere un cambiamento radicale in Italia con la possibilità di un governo di sinistra e le delusioni rispetto a quello che mi aspettavo dall’URSS, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’invasione dell’Afghanistan.
Crollava un mito e un punto di riferimento che aveva accompagnato la mia passione politica e la mia voglia di cambiare il mondo. Sentivo che i miei ideali restavano saldi, ma la realtà mi imponeva un modo nuovo di leggere la storia di quel momento. Mi ero allontanata dall’attività di militante anche per il ruolo di madre che mi impegnava molto.

La caduta del muro di Berlino nel 1989 lo accolsi come una svolta inevitabile di un mondo in cambiamento, di un processo necessario per il superamento dei blocchi contrapposti. Stava finendo l’era della guerra fredda? Quello che non mi convinceva era la svolta del PCI con Occhetto, la consideravo frettolosa quasi per il timore di venire identificati con l’URSS. Si diceva che la parola “comunista” faceva paura.
Del resto il nostro partito aveva già compiuto scelte coraggiose di distacco dall’Unione Sovietica, (Primavera di Praga nel ‘68, intervento di Berlinguer sulla fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre) con un’analisi chiara sulle scelte di un socialismo democratico e di unità con altre forze socialdemoratiche in Europa. Pareva che non bastasse, si viveva continuamente come essere sotto esame.

Non mi ha scandalizzato il cambio di nome e di simbolo, ma piuttosto un’analisi che sembrava cancellare la storia passata, quasi fosse una “vergogna” (o per farsi accettare come forza di governo?). In quegli anni diversi dirigenti, compreso D’Alema, si affrettavano a criticare aspramente il nostro passato, compreso la politica di Berlinguer. Non c’è dubbio che le analisi critiche debbano essere fatte, ma non ci fu alcuna analisi seria a mio parere, che oltre alle critiche desse valore all’operato del PCI sia per il ruolo che ha avuto nella difesa della democrazia e per le sue proposte politiche, dai temi della pace a quelli sul lavoro e per i diritti.
Seguirono anni per me poco entusiasmanti rispetto alla politica del partito, fortunatamente lavoravo con le ONG (associazioni di volontariato di cooperazione con i paesi in via di sviluppo) un mondo interessante e stimolante.

Nel 2007 uscii dal partito, che nel frattempo cambiò ancora nome in DS (fu tolta definitivamente la falce e martello dal simbolo) e mi aggregai alla nuova formazione promossa da Fabio Mussi, Sinistra democratica.

2. Sulla base delle tue conoscenze e delle tue esperienze personali ti chiedo quali sono gli aspetti positivi della storia del PCI da promuovere e rilanciare nella nostra epoca , in particolare nella situazione politica italiana attuale , e quali gli aspetti negativi che non dobbiamo ignorare e gli errori da non ripetere?

Ovviamente mi riferirò al periodo in cui ho militato e lavorato nel PCI (fine anni’70/fine anni ‘90). Gli aspetti positivi della politica del PCI che andrebbero salvati e rilanciati sono i valori a cui si richiamava: antifascismo, pace, giustizia sociale, etica, moralità della vita pubblica, diritti delle donne, il lavoro come priorità. Mi rendo conto che è un elenco un po’ schematico, sarebbe lunga sviluppare ogni tema, quello che mi sento di rilevare è che per ognuno di questi, oltre all’analisi precisa, si sviluppavano campagne e attività specifiche relazionandosi con i soggetti interessati, nei quartieri e nelle fabbriche. Soprattutto l’analisi si collocava in una prospettiva di società che, al di là del nome, fosse alternativa al sistema capitalistico, pur riconoscendo alcuni aspetti della proprietà privata.

Un altro elemento positivo era il contatto costante con la gente, lo studio teorico (fino alla fine degli anni ‘80 c’erano diverse scuole di partito frequentate da migliaia di militanti – le più importanti Frattocchie, Faggeto Lario) e l’analisi della realtà come metodo per costruire collettivamente la linea politica.

Gli aspetti critici: guardando con gli occhi di oggi mi sento di dire che il centralismo democratico a volte condizionava la libertà di espressione e di pensiero. Penso alla condanna (radiazione) del gruppo del Manifesto nel ‘69 (allora condivisi questa scelta).
La diversità di analisi e di soluzioni politiche avevano spazio limitato e comunque decisa la linea da seguire non esisteva alcun pluralismo. Il dibattito spesso restava chiuso in un ambito ristretto al vertice (la Direzione o i Comitati Federali).

Un altro aspetto che in quei tempi era portato all’estremo era il fatto che l’individuo esisteva solo come parte di una comunità, prima veniva il partito. Questo modo di pensare influiva anche nella vita privata. Ricordo un episodio personale. Avevo 18 anni e avrei dovuto partecipare ad una riunione di donne, di domenica. Parlai con la responsabile femminile per chiederle di esonerarmi (avevo un appuntamento con un ragazzo), mi disse che quello poteva aspettare, prima c’era il partito! L’ideologia permeava ogni analisi e azione, spesso con conseguenze di schematismo. Nonostante l’idea di costruire alleanze, all’esterno il partito appariva “intransigente”, poco duttile. Un punto che è stato ignorato è il tema ambientale.

3. Se all’epoca ero scettico, oggi, molti anni dopo, la trasformazione del PCI in un’altra entità politica che coincide, di fatto, con un PD che non si sa proprio cosa sia, penso che è stata, alla fine, un grave errore politico di Achille Occhetto. Non a caso i due principali protagonisti della recente storia politica di questo partito, Matteo Renzi e Elly Schlein , sia pure partendo da differenti punti di vista e da diverse impostazioni programmatiche, non c’entrano nulla né con il comunismo e neanche con la storia della sinistra italiana. Renzi era un leader perfetto per Forza Italia. Ora non lo prenderanno mai neanche lì, Elly Schlein, attuale segretaria del PD è una liberal di scuola americana. La Meloni, quando parla al popolo della destra, lo fa. Ma chi sta parlando al popolo della sinistra del suo futuro, oggi?

Impossibile esaurire la domanda in poche righe. Non c’è dubbio che oggi si pagano i prezzi delle politiche precedenti, soprattutto l’abbandono di alcuni punti prioritari per un partito di sinistra: il rapporto con i lavoratori, il lavoro non solo delle fabbriche ma dei nuovi soggetti soprattutto i giovani.

La pace e il disarmo senza se e senza ma. Penso all’intervento militare nella ex Yugoslavia sostenuto dal governo di centro sinistra con a capo D’Alema e non ultimo il voto del PD a favore degli armamenti all’Ucraina, con una continua ambiguità, incapace di intraprendere una politica seria e indipendente dagli USA e dalla NATO, costruendo un’Europa autonoma che privilegi la trattativa di pace.

Il punto è a chi vuole rivolgersi un partito che si considera di sinistra. Il voto ha dimostrato che si perde anche tra i ceti popolari, segno che il PD non ha sviluppato politiche a favore dei settori più emarginati (lavoro, casa, sanità). Inoltre manca una visione di prospettiva su quale società vogliamo costruire, soprattutto verso i giovani.

Esiste una ricchezza di associazionismo che viene ignorata, anche nella gestione delle amministrazioni di centro sinistra. Potrei parlare di cultura, di scuola, di ambiente, dei diritti civili e altri temi sui quali non mi risulta ci sia stata e ci sia un’elaborazione alternativa a quella della destra. Si reagisce solo “contro” senza essere propositivi.

Sicuramente sono temi trasversali che non individuano soggetti particolari, ma esiste una sensibilità nella società civile che il PD non riesce a raccogliere.

La mia opinione su Renzi coincide con la tua, nulla da aggiungere. Resta il fatto che per troppo tempo è stato dato spazio ad un personaggio (egocentrico) dando l’idea di un vuoto nel gruppo dirigente. Un partito “imballato” su se stesso incapace di rimettersi in discussione e in contatto con la la società reale, con poco coraggio delle idee.

4. Con il ’68 il mondo è andato avanti nella conquista dei diritti civili e sociali: perciò è utile riscoprirne i valori alle soglie del terzo millennio. Questa è anche adesso la tua opinione, eppure i movimenti giovanili della sinistra extraparlamentare si contrapposero apertamente alla linea del” compromesso storico” che ha guidato la politica del PCI sotto la direzione della Segreteria di Enrico Berlinguer, che, di conseguenza, diventò un traditore degli ideali marxisti/ leninisti per le Brigate Rosse e le frange violente del terrorismo. All’epoca tu eri una importante funzionaria del partito che aveva manifestato molte perplessità su questa strategia politica berlingueriana, ma eri stata anche più critica contro chi voleva rompere l’unità del partito, e ricordi il tuo “accanimento” contro i compagni del Manifesto, che nel ’69 erono usciti dal PCI. Quale è stato il tuo atteggiamento nei confronti di Lotta Continua e Potere Operaio, due delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana? Ti è mai capitato di instaurare con questi compagni/e un dialogo costruttivo su temi di reciproco interesse riguardanti questioni politiche specifiche, la cooperazione internazionale, la lotta per i diritti civili, oppure le differenze ideologiche e programmatiche con il PCI erano così forti da rendere impossibile qualsiasi collaborazione?

Su alcuni punti che tratti ho già risposto alla domanda n. 2 (punti critici). Aggiungo solo che quando Berlinguer aprì la discussione sul compromesso storico la maggioranza del partito rimase quasi paralizzato. Io stessa non capivo perché dovessimo allearci con la DC. Il PSI era già nella fase craxiana. Tutto mi appariva oscuro. C’era stata, come sai, nel 1973 l’analisi sul dopo Cile e questo mi convinse che un governo di sinistra sarebbe stato ostacolato anche con la forza (c’erano già stati dei tentativi reazionari per esempio il golpe Borghese (1970). Nonostante le mie perplessità mi resi conto che l’unità con altre forze era necessaria. Ragionai sui termini che Berlinguer usava: unità tra comunisti, socialisti e cattolici, anche se notavo delle contraddizioni, ovvero si parlava di coalizione di governo con la DC e il PSI. Solo dopo l’assassinio di Moro mi fu più chiaro che la strategia della tensione mirava ad evitare quella unità mai realizzata. Oggi penso che a fronte di una strategia ci fosse la tattica di rompere il fronte all’interno della DC tra la parte reazionaria, quella più moderata e una piccola parte di sinistra cattolica.

Rispetto al rapporto con i gruppi che allora chiamavamo “extraparlamentari” posso dirti che personalmente non ho avuto esperienze dirette.

Non ho fatto parte del movimento studentesco, il mio lavoro politico si svolgeva prevalentemente nelle zone della provincia di Milano dove questi gruppi o partiti avevano un peso limitato. Gli unici momenti sono state le manifestazioni in cui lo scontro appariva più evidente. E per scontro non mi riferisco solo a quello politico… Non era facile il confronto a quei tempi non solo, come dici, per la ideologia del PCI, ma anche per la contrapposizione di questi gruppi che ci consideravano “traditori”. Il clima era spesso infuocato se penso anche al periodo delle BR, che hanno attinto anche da questi gruppi, che persino nelle fabbriche contestavano le politiche del PCI e del sindacato arrivando anche a sparare ai nostri compagni (Guido Rossa).

Ti racconto un’esperienza personale Nel dicembre del 1968 ci fu una manifestazione davanti alla Bussola di Viareggio organizzata da vari gruppi tra cui Lotta Continua. In quell’occasione la polizia sparò e fu ferito un ragazzo di 16 anni, Soriano Ceccanti, che fu trasportato a Milano al CTO perché colpito alla colonna vertebrale. Noi ragazze e ragazzi della FGCI a turno stavamo con lui ogni giorno per due mesi, fino a quando fu portato in una struttura specializzata in Cecoslovacchia (tramite il PCI).

Quello fu l’unico vero contatto con un esponente di Lotta Continua, un contatto umano più che politico. L’ho rivisto (purtroppo ancora su una carrozzella) dopo più di 50 anni a Pisa, dove abita con la moglie e la figlia. Abbiamo parlato molto di quei tempi e lui stesso ammette quanti errori furono fatti.

5. Dina, sei ancora oggi una figura di primo piano nell’ ANPI di Milano, e non pensi che sarebbe ora di uscire da un antifascismo di stato quello più tristemente diffuso e ormai fiacco, che consiste nella retorica di appellarsi a un antifascismo di maniera, quindi soltanto ideologico e formale (bandiere, manifestazioni, parate etc.). E invece affermare l’antifascismo con strumenti che lo rendano più sostanziale e spendibile anche nel presente: memoria, cultura, empatia? La storia della Resistenza italiana è piena di esempi di gente comune che ha fatto cose straordinarie semplicemente perché era giusto farle, con coraggio. Sei d’accordo con me che solo con questo approccio l’antifascismo smette di essere soltanto retorica e diventa sostanza nella misura in cui nel nostro presente e specificamente nel sistema liberale in cui viviamo, il fascismo è sciaguratamente tornato a declinarsi in termini di liberismo spinto, con conseguente aumento delle disuguaglianze, soppressione dei diritti sociali e formazione di poteri oligarchici (banche, finanza, etc.) che godono di privilegi preclusi alla stragrande maggioranza dei cittadini?

Sono d’accordo con te, la retorica offusca il vero valore che ha avuto la Resistenza. Possono coesistere due momenti, uno istituzionale, forse un po’ formale, ma secondo me necessario. L’altro più sostanziale legato ai valori della Resistenza che si collega all’oggi, un antifascismo militante in tutte le sue forme, culturali, storiche, di espressione dei valori che quella lotta ha portato fino alla Costituzione, che molti vogliono stravolgere.

Le scuole sono il luogo più consono per costruire iniziative di ogni tipo, dalle testimonianze (anche se di partigiani ne sono rimasti pochissimi) ai filmati, dal teatro alla musica, dalla pittura alla poesia. Ogni forma di espressione e comunicazione rende partecipi le ragazze e i ragazzi, non solo passivi ricevitori di informazioni.

Far conoscere cos’è stato il fascismo, ma anche la sua ideologia che traspare chiaramente dai biechi personaggi del governo e suoi amici. Penso al recente decreto sicurezza che vuole imbavagliare il pensiero libero con repressione e galera. Non serve certo lo spauracchio che il fascismo possa tornare nelle forme di allora, ma occorre mettere in guardia l’azione sottile e perfida, nemmeno troppo velata (vedi Vannacci) che traspare da leggi e decreti che passano senza troppe reazioni anche dell’opposizione e purtroppo della piazza, che non reagisce secondo me con sufficiente determinazione.

L’ANPI sta cambiando e credo in modo positivo, lo vedo dalle proposte, dagli appelli anche per la pace. A Milano abbiamo creato la casa della memoria con una vasta libreria e videoteca visitata da molte scuole. Si fanno presentazione di libri, concerti, incontri.

Per chiudere l’argomento penso che a tutto questo non va trascurato il ricordo di tanti che hanno dato la vita contro il nazifascismo per la democrazia. In occasione del 25 aprile si fanno percorsi nei luoghi dove sono caduti i partigiani e trovano un grande consenso da parte di tanti giovani.

Anche come museo credo sia possibile costruire iniziative simili, pensando anche ai nuovi partigiani, a persone che hanno dato la vita per difendere idee di libertà, penso a Peppino Impastato, a giornalisti, preti. Anche la mafia si allea al fascismo, ricordi i fatti di Reggio Calabria nel 1972 con Ciccio Franco e le bombe sui treni? E per finire ORA E SEMPRE RESISTENZA!

6. Siamo giunti al termine di questa interessante conversazione, ringraziandoti per la disponibilità, e per aver donato al museo molti dei tuoi magnifici cimeli ti lascio la parola per rispondere come meglio credi a un ‘ultima domanda. La sinistra italiana si trova all’opposizione di un governo di estrema destra nel momento in cui la storia dell’Europa arriva a un punto cruciale. Qual è dunque oggi il ruolo della sinistra, o forse è più esatto dire: qual è oggi il mestiere della sinistra? E cosa ti senti di consigliare ai giovani di sinistra che vorrebbero impegnarsi in politica in maniera costruttiva per cambiare la realtà?

Inizio con una frase che può apparire provocatoria… non è più tempo di grandi rivoluzioni. Ho ragionato tanto su questo con i miei coetanei e con i giovani. Forse che considero fallimenti le rivoluzioni fatte in tanti paesi nel mondo? No di certo. Sono stati momenti necessari che in certe fasi hanno cambiato la storia, vedi la Rivoluzione d’Ottobre.

Purtroppo molte, soprattutto le lotte armate, non hanno prodotto risultati di cambiamenti radicali della società, altre sono state represse o assorbite dal sistema o dalla burocrazia,. Penso alle teorie del Che in America Latina e Centrale o i movimenti di liberazione dell’Africa. La Cina è un caso a sé anche se trovo ci siano molte contraddizioni sull’attuale sistema comunismo/capitalismo.

Su Cuba penso che l’embargo abbia contribuito non poco a condizionare lo sviluppo economico di questo paese, ma la mancanza di libertà soprattutto la repressione di voci libere di intellettuali non hanno aiutato. Comunque potremmo andare avanti a parlare per ore.

Ai giovani mi sento di dire che, pur vivendo in un periodo storico difficile con pochi punti di riferimento (mi ritengo fortunata aver vissuto negli anni 70/80), possono riscoprire la storia (e il museo è un bel luogo di conoscenza), i suoi eroi, i valori per i quali hanno combattuto.

Nel presente si può agire nelle associazioni ambientaliste, nell’ANPI, realizzando cooperative sociali, chiedendo alle istituzioni di sostenere luoghi di incontro culturale e sociale. Farsi gruppo sul territorio, perché da soli non si è niente e ci si sente impotenti.

I giovani hanno tanta fantasia e sogni che pur essendo utopie possono essere una leva per agire e pensare a progetti, anche piccoli, da realizzare insieme.

Collettività, socialità, solidarietà, parole chiave che isolano la depressione e la demoralizzazione.

Ripeto i miei tempi erano complessi ma più “facili” e stimolanti. La forza a volte viene dalle difficoltà e dalle crisi. Mi piace l’interpretazione della parola in cinese, composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo e l’altro l’opportunità. E in greco “krisis” vuol dire scelta, decisione. Non voglio apparire una sapientona (non conosco né il cinese né il greco).

Credo che molto derivi da noi stessi, una piccola rivoluzione che ognuno può fare cercando di cambiare i propri atteggiamenti, rendendosi aperto verso gli altri, mantenendo coerenza con le proprie idee, riconoscendo le opportunità che ci dà la vita. Cerchiamo di vedere questo periodo storico come un passaggio (la storia ce lo insegna) verso qualcosa che non è chiaro spesso ignoto, ma che sta a noi costruire e come direbbe Einstein “è nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie” e comunque nulla è impossibile.

Alcuni dei magnifici cimeli comunisti anni ’70/’80 donati da Dina Caprara al Museo

Lettera di Dina al Museo del Comunismo e della Resistenza
Lettera di Dina al Museo del Comunismo e della Resistenza

 

Distintivi, medaglie e portachiavi del PCI, dell'URSS e della Resistenza italiana
Distintivi, medaglie e portachiavi del PCI, dell’URSS e della Resistenza italiana

 

Tessere Pionieri, UDI, FGCI, cartoline commemorative di Gramsci e Togliatti
Tessere Pionieri, UDI, FGCI, cartoline commemorative di Gramsci e Togliatti

 

Una rarissima edizione del 1962 del "Pioniere", il giornalino stampato da partito per i bambini, con un contenuto sociale ben definito di "classe"
Una rarissima edizione del 1962 del “Pioniere”, il giornalino stampato dal partito per i bambini, con un contenuto sociale ben definito di “classe”

 

Pagine interne del "Pionere" con una storia a fumetti sulla lotta partigiana.
Pagine interne del “Pionere” con una storia a fumetti sulla lotta partigiana.

 

Disco- Vinile 33 giri con i discorsi di Giuseppe Di Vittorio
Disco- Vinile 33 giri con i discorsi di Giuseppe Di Vittorio

 

Disco - Vinile 33 giri dedicato alle citta italiane e sovietiche che sono diventate simbolo della resistenza al nazifascismo
Disco – Vinile 33 giri dedicato alle citta italiane e sovietiche che sono diventate simbolo della resistenza al nazifascismo
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